Ventiduesimo incontro di scrittura creativa

 

Anche «giocare con le parole» è un modo per attivare la propria creatività.
Ad alcuni può risultare facile scrivere testi autobiografici o storie di fantasia ma solamente quando sono «liberi» di usare i vocaboli scelti appositamente, sentiti come giusti per quel tipo di narrazione, per quel passaggio descrittivo.
Una bella sfida, una delle tante che fanno pare del corso di scrittura creativa dell’Unitre di Alessandria, è scrivere una storia che contenga parole assegnate al momento dell’esercizio.
Può sembrare facile, ma non lo è.
Nel racconto che segue parole assegnate erano: rumore – tintinnio – cassa- ticchettante -malinconia – fradicio – calma – uggiosa – frangia -    sonno - impermeabili.

Pioggia di guerra
A. P.
 
rumore      tintinnio     cassa         ticchettante        malinconia          fradicio       calma         uggiosa      frangia       sonno        impermeabili
 
 
Da stamattina ci perseguita il tempo gramo. Partiti all'alba sui cassoni dei camion, una uggiosa atmosfera carica di malinconia ci ha accolti giusto all'inizio della prima frangia di prealpi. Ci siamo guardati con l'espressione di chi pensa: «Ecco, lo sapevo!». I sergenti, volutamente ottimisti, hanno deciso che la marcia si sarebbe dovuta fare con ogni tempo: «Non pioverà tutto il giorno! Tutti giù. È solo un po' di umidità.»
«Ma poi si alza!» Aggiunge qualcuno.
«Calma, si alza cosa?»
«La nebbia!»
«Sicuro che sia nebbia?»
Stringiamo gli scarponi, indossiamo lo zaino; per prudenza, chi ce l'ha, lo avvolge con il telo, i moschetti ci inumidiscono già le mani. Il sentiero è appena bagnato, ancora piacevole, l'erba accarezza le scarpe chiodate lasciando soltanto una traccia più scura.
Man mano che ci addentriamo nel bosco qualche goccia ci sfiora la berretta e i capelli, ticchettante, è quasi un avvertimento silenzioso. La luce tra gli alberi è poca, proseguiamo in fila indiana a passo di marcia tra il primo del gruppo, che fa l'andatura e l'ultimo, il raccatta ritardatari, indispensabile perché non se ne vada qualcuno. Il caporale, teso come sempre, salta dall'uno all'altro, impermeabile alla fatica.
Un rumore di fronde si annuncia, il vento si fa strada tra i rami, il tintinnio dell’acqua incomincia a ciangottare. Quando usciamo all'aperto, verso la lunga parete di roccia a strapiombo sotto cui dobbiamo passare, il velo della pioggia è continuo, la roccia è scura, viscida, sgretolata e incombente.
Non possiamo tornare indietro, il percorso previsto è circolare, gli autocarri si stanno già dirigendo al punto stabilito per raccoglierci alla fine della giornata. Non ci possiamo fermare perché la marcia va fatta fino alla fine.
Andiamo avanti così per ore, come una carovana di muli, una zampa dietro l'altra, cercando di non pestarci i piedi l'un l'altro, coperti con le mantelle oliva di panno che riparano finché possono.
Una prima baita chiusa ci permette di ripararci in piedi sotto uno stretto tetto di granito, giusto per respirare sotto il bavero del tabarro. Il vento tagliente porta fin lì la pioggia dura, sferzante, che toglie il respiro. Non ha ancora mai smesso di piovere forte in questo percorso di addestramento. La divisa e le scarpe sono zuppe, pesanti, fumano di sudore e puzzano, la cappa in cui inciampiamo tocca quasi terra. Una seconda baita ci fa sperare nel paese verso cui siamo diretti. Il brontolio del tuono si sente di continuo. Lampi e odore di temporale, quasi di zolfo. Curvi, passiamo ancora attraverso una forra lunga e risaliamo sacramentando e scivolando gli uni sugli altri.
«Via, via, veloci, pappe molli, correre!»
«L'uomo non è solubile in acqua!»
Ci manca solo la sferza.
 
Durante il viaggio di ritorno in caserma è il sonno che ci assale, nel tiepido tepore di ventiquattro corpi addossati gli uni agli altri in una cassa di metallo che si scuote tutta.
Stanotte si dorme ancora in pianura. Domani, sulle montagne vere, vedremo il fronte. Qualcuno ha detto che, lassù, le trincee sono piene di fango.



 

 

 

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