ventunesimo incontro di scrittura creativa

 

Tra i generi che chiedo ai partecipanti del corso di scrittura creativa presso l'Unitre di Alessandria, di sperimentare, quello del flusso di coscienza è il più complesso per tantissime ragioni.
La prima è certamente legata alle difficoltà di scrivere i pensieri così come prendono forma nella nostra testa, senza necessariamente darvi un senso logico, una ragione, una motivazione.
Per chi scrive, a quel punto, la mancanza di un filo conduttore, una organizzazione, una trama e un equilibrio narrativo, diventano «blocchi» difficili da superare.
Chi scrive deve farlo immaginando di trovarsi all’interno dei sui pensieri o all’interno dei pensieri del suo protagonista.
Nel testo che segue potrete trovare questa modalità narrativa.


Riflessioni oniriche.
di C. N.

 

Ho fatto un sogno
Ho fatto un sogno.
Ne ho fatti tanti altri, dopo.
Ne avevo fatti moltissimi, prima.
Ma il sogno di cui sto per scrivere resta unico nel suo genere.
Si dice che le cene pesanti condizionino i sogni.
Eppure, quella sera, avevo mangiato un brodino.
Per di più, la notte seguente quella sera, sperimentai un altro sogno!
E allora?
E allora, il fatto è che quello di cui sto per scrivere lo avevo sperimentato nel pomeriggio, dopo un pranzo leggero, e nemmeno il pomeriggio precedente quella sera.
Mi è difficile scriverne, ho un po’ di confusione.
A volte penso che non sia stato un sogno, ma un’esperienza diversa: peccato che non sappia identificarla.
Quel pomeriggio (quello del sogno), ho chiuso gli occhi sulla poltrona dove amo leggere i libri difficili.
E ho iniziato a sognare.
A sognare … di sognare che sognavo.
Che sognavo … di sognare.
Di sognare che sognavo.
In cascata.
La cascata continuava, annidandosi.
Mi sembrava tutto chiaro, mentre dormivo!
La successione di “nidi” pareva interminabile.
Mi scorreva nella mente come un nastro.
Contavo i nidi: dieci, …, cinquanta, …, mille, …, un milione, e così via.
Tutto mi tornava, ma non ero tranquillo.
A un certo punto, mi pare in corrispondenza del “nido” un
miliardocinquantamilionitrecentomilasettecentoventotto, mi sono svegliato (nel sogno, intendo dire), la successione si è interrotta, e – in sogno alla posizione suddetta – ho aperto gli occhi e mi sono fissato. E ho esclamato, a me stesso: “Sveglia, è tardi!”
Gli occhi si sono richiusi subito dopo, e la successione è ripresa.
Sembrava inarrestabile.
Ero meno tranquillo di prima; direi che avessi oltrepassato l’interregno ibrido in cui gradualmente si ha la metamorfosi dalla tranquillità all’agitazione, e che fossi agitato; poco, ma agitato.
Quelle tre parole mi avevano allertato, ma non svegliato.
Mi avevano esplicitato il pensiero che il passaggio dal sonno alla veglia fosse necessario, ma non riuscivo a compiere il passo.
Mi occorreva uno scuotimento, come quelli che da bambino subivo, sperimentando incubi dai quali mi liberavo, madido di sudore, svegliandomi all’improvviso.
L'incubo arrivò.
Per puro caso (così pensai; e così penso oggi).
Arrivò, in corrispondenza del nido diecimiliardesimo.
Si manifestò con la presenza, in quel nido, di una copia esatta di tutta la successione, dal suo principio
fino al nido precedente (il nido numero novemiliardi-novecentonovantanovemilioni-novecentonovantanovemilanovecentonovantanove).
Il suo peso onirico oltrepassava la mia portata.
Il sogno esplose, come una nuvola che diventa bomba d’acqua.
Urlai, impaurito.
Ero terrorizzato.
Mi svegliai.
Scattai in piedi.
Era come se una saetta mi avesse attraversato verticalmente.
Grondavo di sudore.
La camera da letto era leggermente illuminata.
Eppure non c’erano luci accese; la tapparella era ben abbassata.
I miei familiari erano assenti.
Ero l’unica persona in tutta la casa.
Anche le altre camere si presentavano leggermente illuminate, con tutte le luci spente, e nessun raggio luminoso che entrasse dall’esterno.
A un certo punto, entrai nel tinello.
Sul tavolo, era aperto un quaderno, del tipo senza righe e senza quadretti.
Mostrava le pagine centrali, manoscritte.
Lessi le parole e mi riconobbi: parlavano di me, descrivevano l’esperienza che stavo vivendo in quel
momento; descrivevano il sogno; descrivevano l’incubo.
Presi coscienza della realtà: ero solamente un arcipelago di parole e di punteggiatura, manoscritte in un mare di carta.
A quel punto, smisi di provare emozioni, smisi di vedere, di udire, di sentire il caldo e il freddo.
L’incubo era terminato.
Anzi non era mai avvenuto.
Così come non c’era mai stato il sogno con i nidi onirici.
Ero solamente un arcipelago di parole e di punteggiatura.
Nient’altro.




 
 

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