Il racconto di Anna Corti
Incipit: Gli
strani fatti che sto per raccontare si svolsero nel corso di una estate a
Fontamara
UNA LUNGA
ESTATE FELICEAnna corti
Avevo otto
anni, era terminata la scuola e mi attendevano le vacanze.
La mamma mi aveva però spiegato, abbracciandomi, che papà
doveva essere ricoverato in ospedale, la nonna Elvezia si sarebbe presa cura di
Franco ed io sarei andata per qualche tempo dalla cugina Pinuccia.
Avevo detto di sì, con gli occhi pieni di lacrime, pensando
alla lontananza dai miei genitori e al fatto che conoscevo appena la cugina
Pinuccia.
Era un tipo sbrigativo, senza figli, qualche volta passava a
trovarci, quando veniva in città per i suoi affari, ci portava le sue uova e ci
invitava ad andare a trovarla. Una volta ci eravamo andati, ricordavo una casa
dispersa nella nebbiosa campagna della Lomellina, intorno soltanto campi brulli
e lunghi filari di gelsi con le braccia al cielo: non mi era piaciuta per
niente.
Ebbi la prima sorpresa appena arrivammo. Mi trovavo in mezzo
ad una grande distesa di campi dorati, ai lati della strada lunghe file di papaveri sgargianti che
mettevano allegria. Davanti alla casa una grande aia, nell’angolo in ombra
alcuni bambini giocavano scalzi. Appena ci videro corsero a sedersi sulla panca
addossata al muro.
Pinuccia mi salutò abbracciandomi stretta sul suo grande
seno, indicandoli : ” Sono i bambini dei contadini che abitano nella casa
dietro. Starai con loro durante la giornata, mentre sarò nei campi. Starai
bene, “povra cita”, vedrai!” tradendo
le sue origini piemontesi.
Il mattino successivo mi svegliò presto, e, mentre metteva
sul tavolo un bicchiere di latte e una fetta di pane ricoperta di miele, mi
diede un goffo abbraccio per consolarmi, forse per avermi sentita piangere la
sera precedente, mi disse: “Vai con i bambini, povra cita.”
Da quel momento, diventai “povra cita” per gli adulti e,
qualche volta, per scherno, anche per i bambini.
Così, con un
vestituccio di cotone e un paio di zoccoletti ai piedi, incominciai a seguire
Paolo, Giulio, Rosetta e Costanza, osservandoli nelle attività che
dovevano svolgere, perché anche i
bambini dovevano collaborare al buon andamento della fattoria.
Per prima cosa, si doveva portare il mangime alle galline e
alle oche che starnazzavano quando ci stavamo avvicinando, poi si andava alla
roggia vicina per portare in casa alcuni secchi di acqua fresca.
Per me ogni cosa era una sorpresa: non avevo mai visto una
roggia prima di allora e mi spaventai la prima volta che ci andammo. Appena ci
calammo nell’acqua, le rane cominciarono a saltare da ogni parte ed io scappai,
mentre gli altri bambini ridevano.
Mi piaceva molto andare nel frutteto, arrampicarmi sui rami
più bassi e raccogliere le albicocche e le pesche, riempiendone cesti, come
pure andare nell’orto e staccare le verdure mature, specialmente i grossi
pomodori rossi che Pinuccia preparava per cena suddividendoli a metà e
scavandoli leggermente come barchette, conditi con sale e un goccio d’olio.
Trascorrevamo i lunghi pomeriggi assolati sdraiati nell’erba
sotto gli alberi dormicchiando e facendo giochi semplici con pezzetti di legno
e noccioli di pesca.
Verso sera avevamo un altro compito: andare a raccogliere le
foglie di gelso dai grandi alberi che delimitavano i campi, indicando i confini
delle diverse proprietà.
Paolo e Giulio si arrampicavano sui rami più alti e
staccavano le foglie che noi bambine raccoglievamo facendone grandi cesti e
portavamo nel portico per i “bruchi”. Io non sapevo cosa fossero, ma Pinuccia
mi portò con sé una sera, nel grande magazzino vicino alla stalla. Vidi lunghi
graticci ricoperti di foglie mentre un brusio continuo riempiva il magazzino.
Pinuccia aggiunse le foglie che avevamo raccolto, spiegandomi che servivano per
nutrire i bruchi che stavano costruendo il bozzolo con un lungo filo fatto di seta, che avremmo utilizzato.
Per quella sera la spiegazione finì. Nei giorni seguenti
andai spesso nel magazzino per sentire i bruchi che sgranocchiavano le foglie
mentre continuavo a chiedermi come si poteva srotolare il filo. Quando lo
seppi, non potei più tornare.
Mi stavo abituando a quella vita nei campi, così diversa da
quella in città e mi trovavo bene con gli altri bambini, che inizialmente mi prendevano un po' in giro
e mi guardavano come fossi strana perché non sapevo far niente.
Le giornate erano piene, ma la sera, quando ero sola a letto,
avevo nostalgia della mia famiglia e asciugavo le lacrime che mi riempivano gli
occhi, immaginando di essere abbracciata dalla mamma. Era appena arrivata una
lettera con la quale mi diceva che papà stava migliorando e alla fine di agosto
sarebbe venuta a prendermi.
Mi addormentavo guardando le lucciole che volavano nel buio,
al suono del gracidio delle rane nella roggia.
Una mattina Paolo gridò: “Venite, fate presto, andiamo alla
roggia! Ci sono i girini!”
Appena immersi i piedi nell’acqua, saltai fuori spaventata.
C’era una miriade di pesciolini piccolissimi che giravano vorticosamente. I
bambini ridevano: “Sono i piccoli delle rane! Li raccogliamo in un secchio e
poi giochiamo!”.
Non ho mai voluto giocare con i girini, ma capivo che per
loro era un diversivo perché avevano poche altre possibilità.
Andavo invece molto volentieri con loro a staccare le foglie
dei gelsi, per raccogliere nel frattempo i loro frutti, le more, su alcuni
alberi dorate, su altri color vinaccia. Stavano maturando e diventavano man
mano più grosse e carnose, spandendo il loro profumo dolciastro. Mi piacevano
in particolare quelle scure e, una sera, cogliendole calde di sole, ne feci una
scorpacciata.
Nella notte stetti molto male e Pinuccia era preoccupata.
Chiamò la mamma di Paolo, più esperta di lei in fatto di bambini e, insieme, mi
fecero bere un intruglio che mi provocò molti dolori all’addome, ma risolse il
problema.
Da allora, non posso più sentire il profumo delle more di
gelso , neppure in lontananza, senza star male.
A dire il vero, ormai può accadere molto difficilmente, perché i gelsi
nei campi sono sempre più rari.
Intanto era arrivato agosto.
In un angolo
dell’aia si erano man mano formate due
grandi biche con i covoni di frumento
che i contadini scaricavano ogni sera dai carri con cui rientravano. La
mietitura era finita.
Si doveva ora pensare
al granoturco. Pinuccia era preoccupata perché i campi erano secchi: da troppo
tempo non pioveva. Le foglie degli alti steli incominciavano ad
ingiallire, le pannocchie si ergevano
dorate al sole.
Qualche volta andavo con gli altri bambini a staccarne
qualcuna: ne mangiavamo i chicchi ancora morbidi e dolciastri. Erano eccitati e
parlavano della festa “dei fuachin” come
di un evento memorabile.
La festa si teneva verso fine agosto, dopo che il mais era
stato raccolto e le donne ed anche i bambini avevano liberato la pannocchia
dalle foglie che la racchiudevano (i fuachin).
Mi divertii molto a lavorare sull’aia mentre le donne
parlavano e qualche volta intonavano vecchie canzoni. Alla sera c’era sull’aia
un grande mucchio di pannocchie che veniva trasferito in appositi contenitori.
Quando il mais fu quasi completamente raccolto, si cominciò a
organizzare la festa. L’ultimo giorno si completò il lavoro fino al tramonto,
poi le donne prepararono i tavoli sull’aia. Aiutammo ad apparecchiare
divertendoci come fosse un gioco, poi, con mia grande sorpresa, arrivò un
ragazzo che cominciò a suonare con la fisarmonica, mettendo allegria a tutti.
Ci mettemmo tutti a tavola: Pinuccia, i contadini con le loro
famiglie ed altre persone dalle cascine vicine.
Guardavo meravigliata quel mondo nuovo: gli uomini così
diversi da come li vedevo ogni giorno, stavano parlando forte e ridevano, le
donne portavano i piatti in tavola e si soffermavano civettuole, ridendo alle
parole degli uomini.
La fisarmonica ricominciò a suonare, alla luce della luna e
dei lumi sparsi le donne cominciarono a ballare fra loro, poi si unì qualche
uomo e anche noi bambini ballammo ridendo e giocando.
Fu una splendida festa dei “fuachin”, che ricordo con gioia e
con nostalgia.
Il mese di agosto stava finendo e la mamma sarebbe venuta a
prendermi. Ne ero felice, aspettavo con ansia di rivederla, ma lasciavo con
tristezza Pinuccia e la cascina, dove avevo trascorso un’estate meravigliosa e
inaspettata.
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