Il racconto di Patrizia Cancelliere

 Il testo che inizia con l’incipit tratto da “Il rifugiato dell’abbazia” di Peters.

Sei stato grande!
di Patrizia Cancelliere

 

Tutto ebbe inizio come hanno sempre inizio le peggiori tempeste, precedute da calma e quiete, tanto effimere quanto illusorie. 

Nell’aula il silenzio era assoluto ma gli animi degli studenti della III A del liceo classico erano in subbuglio. Ciascuno contemplava, con sguardo vacuo, dato l’infimo livello di preparazione dell’intera classe, il testo di Plutarco, autore non facile, ciclostilato malamente sul foglio che il professore aveva appena consegnato. 

La distribuzione era stata accompagnata da un discorso che riteneva incentivante. Si era rivolto ai ragazzi sottolineando, in primis, la loro ignoranza cosmica, poi ponendo l’accento sul loro pressapochismo culturale e, infine, ricordando che l’esame di maturità era alle porte. Quella versione, aveva spiegato, poteva fare la differenza: era l’ultima possibilità per essere ammessi, se non con una buona valutazione, almeno con la sufficienza. Insomma, la tensione era al massimo e la pressione psicologica era alle stelle. Soddisfatto per aver compiuto il suo dovere di insegnante, il prof era tornato alla cattedra, posizionata su una altissima predella e aveva cominciato a leggere Tuttosport

La preoccupazione teneva gli occhi dei ragazzi inchiodati sul testo da tradurre; era ancora troppo presto perché cominciassero a girare richieste di aiuto e bigliettini. Qualche minuto dopo, un verso beluino era echeggiato nell’aula. 

Tutti si erano guardati intorno, interdetti. 

Chi aveva osato fare un simile rumore in classe durante una versione di greco? 

Il prof, era saltato in piedi e, individuato immediatamente il colpevole grazie alla posizione soprelevata, era sbottato: “Monterosso, cosa stai facendo??? Rimettiti subito a posto o ti boccio anche se non posso farlo!” 

Purtroppo, però, il povero Monterosso, un florido ragazzone di quasi cento chili per uno e novanta di altezza che, in virtù della sua stazza, occupava l’ultimo banco, anche volendo, non avrebbe potuto ubbidirgli. Rigido, voltato verso il suo compagno che lo guardava inorridito, le braccia tese verso l’alto e le dita come artigli che ghermivano l’aria, gli occhi fuori dalle orbite, emetteva una specie di lamento strozzato. 

Per un lungo attimo, era rimasto immobile e poi aveva perso la rigidità, aveva battuto il mento sul ripiano ed era franato a terra dall’alto banco di legno. Un rivolo di sangue gli colava tra le labbra dischiuse.

Da quel momento in poi, tutto aveva cominciato a scorrere a velocità doppia. Alcuni gridavano, altri si agitavano, nessuno faceva qualcosa di veramente utile. Manovre di primo soccorso? Ma neanche per idea! I diciottenni non ne avevano mai sentito parlare e il professore, adulto responsabile della loro sicurezza, era rimasto prudentemente sulla predella. 

Con aria un po’ disgustata, dall’alto impartiva ordini sconnessi, tendenti soprattutto a rimuovere il più in fretta possibile il problema, cioè il corpo inerte di Monterosso, dalla sua vista e dalla sua classe. “Portatelo in corridoio, presto!”, aveva latrato con voce strozzata. Detto fatto! Alcuni compagni volonterosi avevano arraffato per le braccia e per le gambe il ragazzo svenuto e lo avevano trascinato, inerte, fuori dall’aula. 

Proprio in quel momento transitava in corridoio con passo atletico, petto in fuori e pancia in dentro, Aldo Narduzzi, prof di educazione fisica che, in quei giorni, era particolarmente incarognito per via di una scritta denigratoria, apparsa sul muro del palazzo di fronte al liceo, che recitava “Narduzzi, fai schifo e pure puzzi”, della quale sospettava essere autori gli alunni della III A. Con una rapida occhiata aveva valutato la situazione e colto al volo la possibilità di vendicarsi. In un impeto di pietà verso Monterosso, che giocava bene a basket, aveva spedito una ragazza in segreteria a chiamare l’ambulanza e poi aveva decretato che, in barba alle norme di sicurezza, occorreva spostare l’infortunato al piano di sotto, usufruendo dell’ampio scalone dell’istituto, in modo da essere già nell’atrio quando fossero arrivati i soccorsi. 

A braccia conserte e gambe divaricate si era goduto lo spettacolo degli studenti che, un po’ trascinando e un po’ spingendo, spaventati e sudati, eseguivano i suoi ordini, avvicinandosi a fatica alla scala con il compagno svenuto a rimorchio. 

Le convulsioni erano iniziate quando i ragazzi erano solo a metà del lungo corridoio; Narduzzi aveva avuto grande soddisfazione nel vedere la forza bruta di Monterosso, decuplicata dall’attacco epilettico, scagliarli in giro come pupazzi di gomma. L’arrivo dell’ambulanza aveva messo fine a quella scena pietosa. Gli studenti, parecchio scossi e alcuni anche parecchio contusi, si erano ritrovati seduti sulla scalinata a commentare l’accaduto. Poi qualcuno aveva chiesto “e il compito di greco?” 

Impensabile ricominciare e non c’era più il tempo di organizzarne un’altro prima della fine dell’anno. Era stato deciso di mandare la bella della classe, per la quale il prof di lettere aveva un debole, a sondarne le intenzioni. Ma dov’era, il prof? Non in sala professori, non in segreteria e neanche in presidenza. La bella lo aveva rinvenuto in classe, con la porta chiusa e l’aria colpevole. 

“Prof, ma lei è stato chiuso qua dentro per tutto il tempo?” aveva chiesto la bella, realizzando in un lampo di avere il coltello dalla parte del manico. E poi, perfida, aveva proseguito con finta ingenuità “Chissà cosa diranno i nostri genitori quando racconteremo quello che è successo! Sono così contenti che noi ragazzi siamo in mano a docenti responsabili e preparati ad affrontare ogni eventualità! E per il compito di greco, come faremo?” 

“Ho deciso proprio ora che porterò tutti all’esame almeno con la sufficienza”, aveva risposto il prof, sudaticcio e imbarazzato, guardando per una volta fuori dalla finestra invece che dentro la camicetta della bella, “e, inoltre, invito te e tutti gli altri a non dare troppo risalto a quello che è successo oggi; tuteliamo insieme la privacy del vostro compagno!” 

Il giorno successivo, Monterosso, ricoverato in ospedale per accertamenti, aveva ricevuto la visita dei suoi compagni che si erano tassati per comprargli una scatola davvero enorme di cioccolatini, accompagnata da un biglietto, firmato da tutti, con sopra scritto “Sei stato grande!”.

 


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