Sesta lezione
I ricordi si attivano in mille modi differenti. A volte li ricerchiamo tra le note di una musica, tra le parole di una poesia, tra un sapore o un odore che ci riportano indietro nel tempo.Vi propongo un secondo testo dal titolo Album.
L’ALBUM
di Gianna Fossati
Mi fu regalato, insieme ad un vaso di ortensie bianche, dalla signora Anna, una cara amica. Il piccolo album, dalla copertina bianca, porta una scritta dorata: La mia Prima Comunione.
Fu considerato un ricordo importante, da
conservare quasi religiosamente. Mi raccomandarono di compilarlo con cura e io
lo feci con la miglior grafia possibile, penna e pennino. In appositi spazi
avrei dovuto inserire le foto della
cerimonia, della madrina, dei parenti. In realtà
incollai soltanto la foto scattatami nello studio di un fotografo
professionista, abilmente ritoccata. Di altre ne conservo solo una, scattata forse
da un vicino con la nostra modesta macchina. In bianco e nero, ovviamente.
La
scelta dello sfondo, un angolo del cortile con le saracinesche abbassate di un
magazzino, non fu dettata da ragioni estetiche: si dovevano semplicemente
sfruttare gli ultimi raggi di sole. Al centro del gruppetto io, la
festeggiata, nel giorno della sua Prima Comunione e Cresima.
Giornata
campale per me, con uno strascico di stanchezza che si legge benissimo nella
postura e nell’atteggiamento. Indosso un abito bianco, in tessuto sintetico
leggero, volant in fondo alla gonna, maniche leggermente a sbuffo, collettino
proprio di misura. Ne risulta un visetto tondo che in realtà non è mai stato
tale.
Sui capelli, mossi dalla prima permanente della mia vita, un’acconciatura troppo stretta sotto al mento che accentua ancora di più la pacioccosità del viso. Ai lati pende un velo lungo, che ho poi saputo essere regalo di un’amica di famiglia andata sposa in tempi relativamente recenti. Sono dotata anche di guanti, borsettina, mazzolino di fiori finti.
Al momento dello scatto, pomeriggio inoltrato, il vestito non cade
più a modo e il velo, con tutto l’apparato che incornicia i capelli, si è
spostato un po’ di lato. L’espressione non è sorridente, ma un po’ fissa, come
appaiono immortalati in sguardi poco
spontanei i personaggi che mi circondano, tutti in cappotto.
Sulla
destra mia madre, con l’aria di chi ha
trafficato tutta la vigilia ai fornelli e non ha dormito molto. Dall’altro lato
mio padre tiene il suo Borsalino in mano, quasi in un gesto di inchino garbato
ma rigido. Dietro di me mia sorella, qualche fiore puntato tra i capelli biondi, tenta di esibire un bel sorriso disinvolto. Infine po’ discosta,
nonna Maria sembra chiedersi, pur nel suo consueto atteggiamento fiero, cosa ci
sta a fare lei, autentica donna di campagna, paludata in quel paltò scuro e
troppo lungo, in quella foto di famiglia
in un esterno.
Oggi
guardo e mi chiedo cosa ci rendeva tutti
un po’ strapazzati, quasi sgualciti, inamidati in pose innaturali e con gli occhi
fissi.
Eppure
so bene, ripensandoci, da cosa veniva quello straniamento. Era quasi la fine di
una giornata intensa, faticosa, primaverile ma niente affatto tiepida. Forse
l’unica a non sentire troppo freddo ero io, la festeggiata, imbottita di maglie
di lana sotto il mio agognato, leggerissimo abito bianco.
E con
grande tenerezza nel ricordarlo, non posso escludere che tutti, calzati di
nuovo, fossimo tormentati da un fastidiosissimo male ai piedi…
Era
il 1956 e io avevo 7 anni.
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