Il racconto di Gianna Fossati.

Incipit tratto da Fontamara di Ignazio Silone. 
Buona lettura!


 

LA VALLE DELL’INFERNO
di Gianna Fossati 

Gli strani fatti che sto per raccontare si svolsero nel corso di un’estate a Fontamara.

La prima volta che ci andammo, Marinella, Daniela ed io, pedalando in fila indiana, pensavo che la nostra meta aveva un nome quasi da fiaba. In realtà quelle poche case sparse lungo un rettilineo che corre verso la collina, case basse e modeste, con pochi giardini e molti orti, qualche gallina a razzolare sull’aia, un gatto strafatto di caldo a cercare scampo alla calura, non avevano niente di suggestivo. Noi sognavamo solo un’ombra e acqua, tanta acqua.

La nonna di Marinella, una signora magra, con gli occhiali dalle lenti spesse, la voce bassa e un po’ nasale, ci accolse nella sua casa piccola e fresca. Sul tavolo, coperto da una cerata, aveva disposto ordinatamente tre bicchieri e tre bottigliette di gazzosa, comprate nell’unico negozio del paese. Scolata la bibita, io avevo più sete di prima e chiesi un po’ d’acqua del pozzo. La nonna me ne offrì esitando: era fresca ma con un sapore di uova marce che mi fece subito arricciare il naso.

“E’ acqua sulfurea!” mi spiegarono.

Non chiesi altro. Avevo realizzato il perché del nome Fontamara.

Ci tornammo spesso lungo l’estate.

Sempre con una borraccia d’acqua nel cestino delle bici.

Raccoglievamo prugne nell’orto e ci riparavamo sotto i salici in riva a un canale. Tolti i sandali   immergevamo i piedi nell’acqua. Un giorno, nel bel mezzo degli spruzzi e del divertimento, Daniela gridò: “Guardate!”

Un rettile a pelo d’acqua si dirigeva verso di noi. Balzai subito sull’erba della riva, rabbrividendo di raccapriccio mentre le amiche ridevano della mia paura.

“Non fa niente. È solo una biscia d’acqua!” Ma io non mi bagnai più per un bel po’ di tempo.

Nel frattempo Marinella propose un giorno di raggiungere con le bici un santuario non molto distante, circondato da un parco rigoglioso. Si informò da sua nonna per il percorso da seguire. Lei, a bassa voce e, mi parve, un po’ malvolentieri, le spiegò: “Quando arrivate a un bivio mal segnalato, sulla sinistra, imboccate la valle dell’Inferno, ma con cautela, facendo attenzione…”

Non intesi tutto, ma udii distintamente la parola Inferno. Le amiche non seppero fornire risposte alla mia curiosità. Decidemmo comunque di partire per quella misteriosa destinazione.

Partimmo il giorno dopo. Al famoso bivio dove la strada, peraltro non asfaltata, piegava bruscamente a U, fummo colte di sorpresa da un uomo di età indefinibile, con i vestiti laceri. Inveì a gran voce contro di noi, gettandosi in mezzo e rischiando di farci cadere. Dopo un attimo di spavento, reagimmo pedalando più veloci.

Ma chi era? Con un po’ di incoscienza concludemmo che non poteva che essere un pazzo. D’altra parte non volevamo ritornare indietro e pedalammo con maggior foga.

La strada della valle dell’Inferno, deserta, si snodava tra i campi. Nessuna casa vicina, soltanto qualche isolata cascina in alto. Di lontano, nel meriggio caldo, non si notava nessuno.

Fu una bella sudata ma infine raggiungemmo la chiesa e la frescura del suo parco. Al ritorno il pensiero dello strano uomo ci sfiorò appena, eccitate come eravamo per la spedizione portata a termine e stordite di caldo e di fatica.

Qualche tempo dopo seppi dai notiziari di un delitto consumato proprio su quelle colline: in un cascinale isolato erano stati rinvenuti i corpi di due coniugi, massacrati non si sapeva da chi e per quale motivo.

I colpevoli non furono mai identificati. E nessuno, neanche sui giornali, citò mai il nome della valle dell’Inferno. Perché?

Soltanto la mia fantasia continuò a galoppare: da parole come zolfo, serpente, acqua amara, omicidio, inferno, follia forse un giorno ne sarebbe scaturito il racconto della nostra estate.



 


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