Il racconto di Patrizia Cancelliere

L'incipit di questa  settimana è: "Per quattro settimane era rimasta nel letto dei genitori: un lettone gigantesco, più lungo del normale perché suo padre era alto e aveva piedi grandi."
Tratto da Il letto di Alice di Cahleen Schine.


Il giusto stimolo
di Patrizia Cancelliere

 

Per quattro settimane era rimasta nel letto dei genitori: un lettone gigantesco, più lungo del normale perché suo padre era alto e aveva piedi grandi. 

Il fatto che il letto fosse molto comodo e accogliente non la consolava per niente perché lei doveva stare tutto quel tempo infinito posizionata come un Cristo in croce contro i cuscini, in trazione, con le braccia tirate a destra e a sinistra da un sistema rudimentale di carrucole e sacchetti di sabbia, l’unico modo conosciuto nel 1938 da un medico condotto per ridurre le fratture scomposte senza portare il paziente in ospedale in città. E per questa bella situazione Teresa doveva ringraziare la sua indiavolata sorellina di cinque anni, più piccola di lei di otto, che la amava di tenerissimo amore e voleva sempre stare con lei, insieme a lei, dormire con lei, giocare con lei e stare in braccio a lei.

Queste manifestazioni di affetto e questa preferenza rispetto a Franca, l’altra sorella, che la piccola Rita le tributava, all’inizio avevano inorgoglito Teresa che si sentiva gratificata ma poi aveva cominciato a rendersi conto del fatto che la cosa faceva gioco alla mamma che gliela rifilava sempre da badare, rovinandole la piazza con i suoi amici, infastiditi dal fatto che lei si portasse dietro la noiosa appendice. Per questo, la povera Teresa cercava in ogni maniera di renderla invisibile, inventando fantasiosi compromessi fra il doversi per forza occupare della piccola cozza e il voler partecipare a tutti i giochi, spesso movimentati e scatenati. 

Quel malaugurato giorno ci si sfidava a campana; Teresa era bravissima e quindi non ci aveva pensato due volte e si era caricata Rita sulle spalle. Formavano uno strano animale con due teste, di cui una congestionata per lo sforzo e una urlante incitamenti, che si reggeva su due gambette magrissime ma agili e scattanti, calze arrotolate alle caviglie e scarpe scalcagnate. Ma la sfortuna era dietro l’angolo, Teresa era inciampata, sbilanciata dal peso della sorella che si agitava come un’ossessa, proprio mentre finiva, velocissima, il percorso. 

“Ahi, mi hai fatto male! Mi hai fatta cadere, cattiva!” si era lagnata la piccola Rita, tirandosi su da terra già pronta a mettersi a piangere, ma poi era rimasta in silenzio insieme agli altri amichetti a fissare, sconcertata, le braccia di sua sorella girate in una posizione impossibile. Anche Teresa le aveva guardate e poi era svenuta. 

Il dolore l’aveva risvegliata e aveva preso coscienza del fatto che, essendosi fratturata tutte e due le braccia, avrebbe dovuto passare un mese inchiodata in quel letto e in quella posizione. Era luglio e faceva molto caldo. Gli altri bambini andavano a trovarla ma erano spaventati nel vederla in quelle condizioni, restavano pochi minuti senza sapere cosa dirle e poi scappavano via. 

La mamma e la sorella grande si occupavano di lei e le facevano un po’ di compagnia ma poi tornavano alle loro occupazioni e non le restava altro, visto che la tv non era ancora stata inventata e che i suoi non possedevano una radio, che seguire il cammino delle strisce del sole fra le alette delle persiane lungo le pareti della stanza e farsi ubriacare dal continuo chiacchiericcio di Rita che, vestiti i panni della crocerossina, non la mollava un momento.

Per questo, e aggiungerei anche comprensibilmente, il suo morale era a terra, non voleva più mangiare, piangeva sempre e a niente servivano le blandizie dei suoi preoccupati genitori che le avevano promesso persino che, una volta guarita, l’avrebbero portata a vedere il mare in treno. Questo atteggiamento negativo infastidiva oltremodo Rita che centuplicava gli sforzi per distrarla, ora portandole un verme o una lucertola sul letto, ora pettinandola col pettinino fine con la scusa di cercarle i pidocchi, ora facendole il solletico sotto i piedi per farla ridere. 

Tentativi inutili e per niente apprezzati, anzi, quando la vedeva comparire, Teresa urlava terrorizzata e qualcuno accorreva e la portava via. Rita aveva deciso che bisognava affrontare il problema parlandone, come diceva sempre la mamma e così, un giorno, aveva mostrato a Teresa la crosta che aveva sulla gamba, e le aveva detto: 

“Smettila di lamentarti tanto! Guarda io cos’ho sul ginocchio, me lo sono sbucciato quando mi hai fatta cadere. Mi fa male ma vado lo stesso a giocare. Tu, invece, sei proprio una piagnona! Piagnona! Piagnona!” 

Era la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Da quel giorno Teresa aveva ricominciato a mangiare per poter guarire presto e tornare in forze 

“Appena mi guariscono le braccia, l’ammazzo!” pensava, e le giornate passavano veloci mentre architettava mille modi molto dolorosi per eliminarla, farla franca e guadagnarsi finalmente un futuro sereno.

 


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