Il racconto di Emilia
Ecco il terzo racconto con l'incipit tratto da un libro di Cronin.
Ogni sera alle sei un senso di attesa
riempiva la casa, animando il lungo pomeriggio vacuo e irreale.
di Emilia Bove
Quei pomeriggi silenziosi erano disturbati
solo dalla quotidianità semplice di mille gesti e rumori che scivolavano
invisibili nei corridoi e nelle piccole stanze: un rubinetto che si apriva,
un’imposta che si socchiudeva, un cane che abbaiava in lontananza…
Io e mia madre ognuna nel suo mondo, in
quei pomeriggi di estate, inseguivamo le nostre abitudini e quando ci
incrociavamo nei corridoi, ci scambiavamo uno sguardo, poche parole, nel timore
di infrangere quella quiete e rompere l’incantesimo dell’attesa.
Io facevo i compiti, giocavo con le
bambole o leggevo, solo a volte tendevo l’orecchio per sentire i passi silenziosi
di mia madre che si aggiravano per casa, aveva sempre qualcosa da fare, lo
sguardo sereno ma mai un sorriso, una risata spontanea.
Non mi ero mai chiesta se fosse felice,
allora. Erano domande che data la mia giovane età non mi facevo ancora, eppure
per osmosi la sua malinconia si era trasmessa a me, rimanendomi appiccicata per
gli anni a venire.
E in seguito me lo sono chiesto tante
volte se fosse stata felice.
Probabilmente sì o forse no, non lo
so.
Forse ero io a non esserlo e quando
nell’attesa smettevo di leggere e mi affacciavo alla finestra pensavo a mille
vite diverse che avrei potuto vivere, a mille avventure che sarebbero rimaste
in eterno nelle mie fantasie senza mai realizzarsi.
A risvegliarmi dalla mia immaginazione,
mentre combattevo contro il male o più semplicemente un “principe azzurro “veniva
a liberarmi dalla mia prigionia, erano le campane che in lontananza suonavano
le sei.
Mia madre ritirava il cestino del
cucito, lasciando a metà i lavori iniziati, si guardava nel piccolo specchio dell’ingresso
e il silenzio veniva rotto dai suoi richiami. Mi chiamava più volte, poi la
porta si chiudeva alle nostre spalle e andavamo al bar ad aspettare mio padre
che uscisse dal lavoro.
Nel bar a tutto volume trasmetteva
quella scatola magica che stava conquistando tutti e che mia madre amava in
modo particolare, affascinata da quelle immagini in bianco e nero che
sembravano arrivare da un altro pianeta.
Non ricordo perché andavamo a quell’ora
o se ci fosse qualche programma in particolare, ma non importava, qualunque
cosa ci trasportava in un un’altra dimensione. Mio padre usciva dal lavoro alle
sette e penso che quel l’unica ora, in tutta la giornata, fosse per mia madre
il suo canto di libertà. La vedevo stupirsi, sorridere, ridere e in quell’ora
lei sembrava sbarazzarsi della sua malinconia.
Qualche anno più tardi comprammo anche
noi il televisore, e non fu più lo stesso. Ricordo che mia madre non la
guardava quasi mai. Si era rotto qualcosa. L’attesa non c’era più, le nostre
corse in strada sembravano dimenticate, le risate non risuonavano più come in
quell’ora rubata.
I nostri pomeriggi erano cambiati, ma
d’altra parte stava cambiando anche il mondo.
Bello anche se un po’ amaro nel finale
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